Fede, arte del rischio

da | 30 Gen 2017 | La buona parola

“La fede che si può contemplare nel Vangelo è soprattutto un’arte del rischio.

Credere è rischiare di credere, così come amare è rischiare di amare”: leggendo distrattamente le pagine del quotidiano Avvenire, m’imbatto in questa frase di padre Tolentino Mendonça, posta come incipit della rubrica “La piccola via delle grandi domande”.

La fede è arte del rischio: a chi credo? cosa credo? perché credo? Domande che non esigono una risposta, ma una vita di risposte.

Come diceva Tertulliano “credo quia absurdum”, credo perché è assurdo: l’inconcepibilità del mistero che professiamo ci spinge a lasciare da parte gli strumenti intellettivi per imparare a contemplare.

Ma possiamo estendere l’affermazione di Tertulliano anche all’assurdo che ci circonda: davanti alla sofferenza, alla guerra, alla morte, alla calamità naturale (pensiamo solo alla tragica vicenda consumatasi a Farindola, o a quanti hanno perso affetti, casa, lavoro in una sola notte di terremoto), l’unica certezza apparente è l’assurdità dell’esistenza!

Nel contrasto tra ragione nostra e decorso degli eventi sembra esservi un’insanabile rottura, non è possibile conciliare gli opposti.

Ma è lì che nascono le risposte: è nell’esperienza dell’assurdità che si scopre l’arte del rischio: fede non significa scommettere, non è l’atteggiamento di sfida che genera la fede, ma l’abbandono alla dimensione della certezza velata di possibilità.

Se da credenti siamo certi che oltre la sofferenza c’è la vera felicità, contemporaneamente siamo punti dal dubbio.

Pensiamo all’episodio dell’apostolo Pietro che, vedendo Cristo camminare sulle acque agitate del lago di Tiberiade, gli chiese di poter anche lui camminare nella tempesta.

È da notare che la richiesta di Pietro inizia con “Signore, se sei tu”: se tu sei, allora io sono; se tu puoi, dunque, io ti seguo.
Pietro ha rischiato di affondare, ha accettato il pericolo, ha intrapreso il cammino; ma il vento l’ha scosso, ha aperto la voragine del dubbio.
Ma, nella narrazione evangelica, l’apostolo non è abbandonato a sé: pur essendo di poca fede, è stato salvato.

In Pietro possiamo riconoscerci tutti: la fede non si acquisisce una volta per sempre, ma è frutto di un costante rimettersi in discussione, orientare la propria ragione al mistero, intuire le tracce di fedeltà lasciate da Dio.

Non è stata l’impetuosità di Pietro a fargli conoscere il Maestro – dopo aver assicurato di non abbandonare mai Gesù, anche davanti alla morte, lo rinnegherà senza tanta esitazione –, ma l’aver accettato il rischio, sapendo di non restare deluso.