L’esperienza di Giada in Etiopia

Vorrei iniziare con una citazione del fotografo Chester Higgins: “We are not Africans because we are born in Africa, we are Africans because Africa is born in us”. Io credo che l’Africa sia nata dentro di me i primi di marzo in Etiopia.

Premetto che sono una persona piuttosto riservata, faccio fatica ad esternare i miei sentimenti e non amo parlare di questioni personali che mi toccano in modo profondo.
In questo caso voglio provare a fare un’eccezione, perché sono convinta che l’aspetto più significativo di questa esperienza risieda proprio nelle emozioni che ho provato, coltivato, e che ancora mi offuscano la mente distogliendomi dalla frenesia delirante delle persone e della vita a Milano.

Nonostante fossi già stata più volte in varie parti del continente africano, il primo giorno in Etiopia mi è sembrato il mio primo giorno in Africa. Nessuna esperienza in un ufficio, per quanto interessante e formativa, può essere paragonata ad un mese di vita intensa a contatto con le persone, in cui non ci si trova a parlare con la gente dall’altra parte di un tavolo ma seduti a mangiare nella stessa capanna, condividendo cibo, acqua, odori, sorrisi, parole e sensazioni. I rapporti umani che si sono stabiliti mi hanno permesso di immergermi totalmente nella cultura, nel pensiero, nell’essenza del popolo etiope, come non mi era mai successo altrove. Penso che questa sensazione di vicinanza e di appartenenza sia il regalo più grande che questo Paese mi ha lasciato. Le giornate sempre pienissime si sono susseguite apportando ogni giorno una nuova scoperta e una nuova riflessione.

L’esperienza della scuola è stata senza dubbio gratificante e interessante al di là di ogni aspettativa. Rapportarsi a bambini che vivono dall’altra parte del mondo potrebbe sembrare problematico dal punto di vista dell’insegnamento e delle relazioni, ma non ho paura di sembrare banale dicendo che fin dal primo giorno ci siamo sentite accolte come in famiglia; insegnare e giocare con quei bambini è stato come avere seicentocinquanta fratellini allegri e affettuosi.

C’è qualcosa in loro che non saprei definire, qualcosa che al primo sguardo annulla qualsiasi barriera frapposta tra me e loro, e penso che nemmeno una lingua ricca come l’italiano possa contare abbastanza parole per descrivere l’emozione che si prova ogni giorno per i loro piccoli gesti, per i loro occhi che non nascondono le gioie e le delusioni, per i loro sorrisi sinceri come nessun altro al mondo. D’altronde non sarebbe giusto ridurre una sensazione così immensa a qualche parola, per questo motivo consiglio a chiunque stia leggendo di vivere un’esperienza vera per capire di cosa sto parlando.

Oltre all’attività scolastica, abbiamo avuto modo di assaporare la vera Etiopia accompagnando i bambini ai loro villaggi, giocando con i loro amici, mangiando nelle loro case, conoscendo le loro famiglie. Per questa opportunità vorrei ringraziare le Sisters, che hanno saputo accompagnarci e farci vivere fino in fondo ogni aspetto di questa esperienza.

Visitare i villaggi significa rendersi conto della pochezza materiale con cui vivono le persone, ma non con gli occhi impietositi di un visitatore curioso, bensì con gli occhi di chi entra in casa di un amico e si accorge che vive in un mondo diverso e lontano dal suo, eppure tra amici non ci sono differenze e ci si sente sempre vicini. Senza elettricità, senza acqua corrente, con servizi igienici fatiscenti, queste case non hanno pavimenti, e solo i più fortunati possono vantare pareti solide in fango, mentre altri si accontentano di ripararsi con pezzi di lamiera o con vecchi stracci, eppure ci hanno accolto come in una reggia.

Con un po’ di stupore guardare queste persone nelle loro abitazioni non ha suscitato nemmeno per un attimo il pensiero che con una spesa per noi irrisoria avrebbero potuto vivere in case migliori, o forse solo più simili alle nostre. Il mio primo pensiero è stato che forse loro non hanno bisogno di case come le nostre, non hanno bisogno di assomigliare a noi, e che probabilmente chi gode di buona salute, ha un riparo sicuro e asciutto per dormire, qualcosa da mangiare e un’istruzione per i figli, non vive poi così male, nemmeno in una capanna di fango.

Nonostante i problemi di ogni natura che lacerano la società etiope, è incoraggiante vedere come queste persone combattono con fierezza, a piedi scalzi ma con la stessa dignità di un principe.

A questo punto mi sono convinta fortemente del fatto che la qualità della vita è davvero impagabile, che chi non sta bene con sé stesso non dorme bene nemmeno al Grand Hotel, mentre basta un po’ di ricchezza nell’anima per dormire felicemente per terra. Quando mi chiedono cosa mi sia rimasto di questo viaggio non so mai come rispondere, ogni attimo vissuto mi è rimasto impresso nel cuore e non basterebbe un giorno intero per raccontarlo. Un mese a Bole è valso più di un anno speso tra gli impegni quotidiani, e posso dire di non averlo considerato un viaggio ma un pezzo della mia vita.

 

Giada