“Sono povero, ho venduto un rene”

Lo chiamano “il villaggio dei reni”

Tratto da un testo di Emanuela Bambara

Potrebbero chiamarlo il “villaggio delle cicatrici”. Quasi tutti ne hanno una, ben visibile, all’altezza del bacino. È un segno di identità. Significa: “Sono povero, ho venduto un rene”.

Hokse, in Nepal, nell’Asia minore. Per i trafficanti di organi è una miniera di pezzi di ricambio umani a basso costo, con la complicità di medici compiacenti, spesso chirurghi specializzati senza scrupoli, che operano in condizioni di illegalità e senza il rispetto delle norme igieniche primarie.

Un rene vale qui tra i mille i 2mila dollari, mentre negli Stati Uniti il costo è di circa 40mila dollari.

l prezzo corrisposto al “venditore di organi” dopo l’intervento è quasi sempre di gran lunga inferiore a quello pattuito.
L’acquirente paga intorno ai 50mila dollari per l’intera “operazione”: il procacciatore, l’ospitalità alberghiera, il ricovero, l’intervento chirurgico.
Qualcuno dei mercanti di “materiale vivente umano” si sente perfino un benefattore: “Tu hai un rene nuovo, il donatore è felice perché ha bisogno di soldi”. Felice di cedere un pezzo di sé per sopravvivere, avere di che pagare il cibo per i figli, le medicine per i familiari malati, l’affitto della casa, in un Paese in cui c’è davvero poco per essere felici.

Sono storie di povertà. Storie di miseria umana. Storie di vite che non sanno cosa significhi vivere. Al Festival del Cinema del 2010, il regista Roberto Orazi presentò il film-documentario-inchiesta “H.O.T. – Human Organ Traffic”. Tra i protagonisti, c’era Deepak, un giovane nepalese che raccontava la decisione di vendere un rene per comprare un pezzo di terra dove coltivare riso e lenticchie, per sfamare la famiglia.

L’emancipazione dalla povertà attraverso la donazione di organi è, però, un inganno. Da uno studio pubblicato sul “Journal of the American Medical Association” nel 2002 risulta che chi ha venduto un rene per migliorare le proprie condizioni economiche, in realtà, le ha peggiorate. Dopo sei anni, ricade in condizioni di indigenza, talvolta finanche più gravi. Per non parlare dei problemi di salute: dolori continui, insufficienza renale e ipertensione, depressione, isolamento sociale, disabilità al lavoro e disoccupazione.

In Nepal, la donazione di organi è illegale, ad eccezione dei casi in cui vi sia consanguineità. È facile spacciarsi per parenti. I documenti falsi non sono un problema. “I chirurghi sanno benissimo che tutto è fasullo, ma fanno finta di crederci. A volte sono loro stessi a chiedere cosa scrivere sui certificati. Se qualche dottore fa domande in più è solo per chiedere un sovrapprezzo in nero sulla parcella della clinica”, ha dichiarato al giornalista dell’Espresso Alessandro Gilioli un intermediario di Kathmandu, Krishna Kanki.

Oltre ai venditori volontari, ci sono poi i traffici umani. Un “mercato” criminale che, per l’Osservatorio delle Nazioni Unite, rende quasi 32miliardi di dollari l’anno.

Soltanto nel 2014, in Nepal, sono sparite oltre 5 mila donne, secondo gli esperti a motivo del commercio illegale di organi, per sfruttamento della prostituzione o la riduzione in schiavitù. Un fenomeno in crescita in modo preoccupante. Kamala Bhatta, rappresentante dell’Unione femminile dell’Ufficio di Polizia, in Nepal, riferisce che la maggior parte delle donne scomparse ha meno di 40 anni. “Soltanto il 30 percento delle famiglie sporgono denuncia”. Spesso, infatti, sono proprio le famiglie, povere, a vendere le ragazze a organizzazioni criminali.

La vita delle donne vale molto di meno di quella degli uomini, in molti Paesi asiatici. In qualcuno non vale nulla.
In Nepal, per esempio. Le vedove sono, per i procacciatori, il più fruttuoso bacino biologico.

Rupa Rai, attivista cattolica, collaboratrice della Caritas nepalese, ha più volte sollecitato il governo locale ad adottare “nuove politiche che assicurino punizioni severe contro i trafficanti e attuare programmi di prevenzione dei crimini”.

C’è, poi, la sparizione di immigrati, narcotizzati ed espiantati senza il loro consenso. E insieme la vendita volontaria, per esempio di migranti in fuga dal terzo mondo verso le coste italiane. Scafisti dell’Eritrea e della Libia, brokers della Nigeria e della Somalia, gestiscono il business dello stoccaggio di esseri umani per la terra ferma.

Nepal, India, Pakistan, insieme a Filippine e Brasile, in Europa la Moldova, sono gli Stati ai primi posti della classifica “nera”. I Paesi da cui provengono il maggiore numero di domande sono Israele, Giappone, Sud Africa e Stati Uniti.
Uno schiaffo a chi crede che vivere in un Paese ricco significhi essere civili. I “beni” più richiesti sono reni, occhi, fegato, cuore, polmone. Insieme agli organi visibili, però, si espianta quello “invisibile” e più prezioso: l’anima. Anche se il corpo sopravvive all’intervento, lo spirito muore. La persona è resa menomata nella sua umanità, innanzitutto.

Benché proibito dai Trattati internazionali, il commercio di organi da trapianto è di fatto consentito in molti Paesi.
In Iran è legale. Singapore è il primo Stato ad avere legalizzato la vendita di organi volontaria. Quella del rene è la più diffusa al mondo. Nel mercato nero frutta circa un miliardo di dollari l’anno. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, ogni anno vengono eseguiti circa 66mila trapianti di reni, 21mila di fegato, 6mila di cuore. Si stima che circa nel 10 percento dei casi si tratti di donazioni illegali. Una Raccomandazione del Consiglio d’Europa del luglio scorso dovrà essere recepita dagli Stati membri per perseguire penalmente il traffico d’organi.

 Emanuela Bambara