6^ Domenica dopo il martirio di San Giovanni

6^ Domenica dopo il martirio di San Giovanni il precursore – Anno A

Vangelo di Luca 17,7-10

Commento di suor Giulia Calvino, FMA

 

La scena tra padrone e servi che il vangelo di oggi ci presenta termina con tre parole spiazzanti: “Quando avete fatto tutto dite: siamo servi inutili”.

Guardo nel vocabolario e vedo che inutile significa che non serve a niente, che non produce, inefficace. Ma non è questo il senso nella lingua di Gesù: non sono né incapaci né improduttivi quei servi che arano, pascolano, preparano da mangiare. E mai nel Vangelo è dichiarato inutile il servizio. Significa: siamo solo servi, senza rivendicazioni, senza secondi fini. Servi inutili non perché non servono a niente, ma, secondo la radice della parola, perché non cercano il proprio utile, non avanzano rivendicazioni o pretese. Loro gioia è servire la vita. Servizio è, secondo la logica evangelica, il nome nuovo della civiltà, purché convinti che l’energia che converte non sta nel predicatore, ma nella Parola. «Noi siamo i flauti, ma il soffio è tuo, Signore». (Rumi).

Servo è il nome che Gesù sceglie per sé; come lui dovrebbe essere il discepolo, il credente, dovrebbero essere tutti coloro che abbracciano uno stato di vita che comporta condivisione, partecipazione al bene comune, dono di sé, perché questo è l’unico modo per creare una storia diversa, che umanizza, che libera, che permette di respirare aria salubre, in grado di ossigenare e rigenerare opacità e grigiori spirituali.

Il servo della parabola sta a ricordarci che occorre fare quel che c’è da fare (notiamo l’insistenza del verbo “fare”) senza attendersi alcuna riconoscenza, alcun riconoscimento particolare, ma sempre con profonda disponibilità e libertà, senza pretese, come dovrebbe essere sia il nostro rapporto con Dio, sia quello con chi ci è posto accanto.

“Siamo servi di Dio e la nostra relazione con Dio non appartiene al campo dell’utile, ma a quello della grazia: per Dio siamo ‘inutili’ perché ci ama ‘per grazia’! E la nostra azione, la nostra obbedienza è la nostra gratitudine per l’amore con il quale egli ci ha amati” (Daniel Attinger). Occorre allora uscire dalla logica dell’utile, logica dentro la quale non possiamo inscatolare l’amore, la carità: è forse utile cercare di amare? È nutrirsi alla stessa tavola, preparata da noi tutti, servi del Signore e servi gli uni degli altri, perché è il Signore stesso a parlarci del regno come banchetto, è il Signore che per primo si cinge la veste ai fianchi per servirci.

Di fronte al nostro spenderci per il Signore nella linea del carisma, penso abbiamo sperimentato molto spesso la possibilità di ritrovarci un po’ fallimentari, perché l’impegno messo nel servizio educativo non ha sortito l’effetto desiderato. Il rileggere con speranza e fiducia queste poche righe del vangelo di oggi può aiutarci a continuare la semina, perché ciò che vale è il Seme, che porterà frutto come e quando il Seminatore lo vorrà.

Oggi è festa di San Francesco d’Assisi, un servo e seminatore instancabile. Francesco ha di sé l’immagine di servo del Signore, che si pone al servizio dei fratelli. E spesso si domandava se fosse servo del Signore oppure no: “Mentre dormiva in una cella a Siena, una notte chiamò a sé i compagni che dormivano: ho invocato il Signore, spiegò loro, perché si degnasse di indicarmi quando sono suo servo e quando no; perché non vorrei essere altro che suo servo. E il Signore nella sua immensa benevolenza e degnazione mi ha risposto: Riconosciti mio servo quando pensi, dici e agisci santamente. Per questo vi ho chiamato, o fratelli, perché voglio arrossire davanti a voi se avrò mancato in queste tre cose”. (FF 743)

Rendere e restituire: il servizio si compie nel rendere e restituire con la parola e le opere i doni ricevuti dal Signore. Nella sequela di Gesù non si rivendica nulla, non si pretendono riconoscimenti, non si attendono premi, perché neppure il compito svolto diventa garanzia o merito. Questa gratuità del servizio deve essere visibile nella nostra vita, perché “un apostolo non è più grande di colui che l’ha inviato” (Gv 13,16), è costitutiva dell’autorevolezza dell’apostolo, di ogni inviato, che non “guarda a se stesso”, non misura il proprio lavoro, ma obbedisce soltanto alla parola del Signore, mosso dall’amore per lui, affidando a lui e alla sua misericordia il giudizio sul proprio operato. Per chi ama basta amare e non c’è attesa di riconoscimento.

Così sia per ciascuno di noi.