Antropocene

da | 22 Giu 2020 | Film

Un grande fuoco purificatore. Un fuoco che affascina e che fa paura insieme. Un crepitio necessario affinché qualcosa si apra dentro di noi per accogliere il potente messaggio visivo di questo film che racconta, senza inutili didascalie, la storia di come e quanto l’uomo abbia modificato la Terra. Una storia che traccia un solco talmente profondo da dare agli scienziati inconfutabili evidenze per proclamare l’inizio di una nuova era geologica: l’antropocene – l’epoca umana.

Per quanto l’informazione in merito ai danni causati all’ambiente dall’uomo non sia sicuramente scarsa e non manchino intorno a noi le evidenze della presenza predatoria della nostra razza che si ostina a sfruttare ogni centimetro di terra disponibile per qualche attività che lo riguarda, trovarsi di fronte alla realtà visiva proposta dai registi canadesi è una di quelle esperienze che non si dimenticano tanto facilmente e che, forse, potrebbero aiutarci a cambiare in meglio.

La coppia Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier (moglie e marito), supportata dal noto fotografo Edward Burtynsky, arriva con questo documentario al terzo appuntamento di una trilogia iniziata con nel 2006 con Manufactures Landscapes, e proseguita nel 2013 con Watermark: un’indagine per emersione della verità che, spogliata del suo normale contesto, viene rivista come per la prima volta, con altri occhi. Come se noi spettatori oggi facessimo la nostra prima comparsa sulla Terra e dovessimo comprendere i meccanismi che muovono i suoi abitanti. Come se non fossimo noi quell’ánthrōpos (“uomo” in greco) che ha piegato per millenni la realtà al suo volere. Un volere che adesso, nelle sue conseguenze catastrofiche, appare piccolo e miope, rispetto ai grandi piani della natura.

Antropocene arriva dritto al punto perché non spiega, non sottolinea incessantemente e verbalmente una verità aprioristica: è girato con enorme stile e accortezza, uno stile che si avvale di giustapposizioni di immagini in grado di ammutolirci perché testimoniano i peggiori peccati dell’umanità: l’indifferenza, l’ineguaglianza, la follia superba.

Il film è quindi una scansione di vari microcosmi, divisi in sette sezioni, corrispondenti alle azioni più o meno violente che gli umani compiono verso la Terra: estrazione, terraformazione, tecnofossili, perturbazioni antropogeniche, linee di confine, cambiamento climatico, estinzione.

Proseguendo nella visione di questi 87’ minuti di gironi infernali, la voce narrante lascia che lo spettatore tragga dalle evidenze le proprie conclusioni: lei declina semplicemente il significato del termine che introduce ad ogni sezione, poi sono gli uomini che abitano la Terra a parlare. Alcuni testimoniano con orgoglio di vivere e lavorare nelle discariche più grandi del mondo (Dandora, Nairobi, Kenya), in cerca di quei materiali inesistenti in natura, come la plastica, che, se lasciati nell’atmosfera, produrrebbero tecnofossili, ossia uno nuovo strato di superficie totalmente artificiale derivato dalla degradazione lentissima di questi stessi materiali. Altri, sempre in Kenya, combattono per impedire una volta per tutte l’attività dei bracconieri che sterminano gli elefanti a caccia del prezioso avorio con cui sono fatte le zanne di questi animali.

A volte è la Terra stessa a parlare restando muta, esponendo le proprie ferite: sono le impressionanti immagini della montagna di Carrara, sventrata nella costanza dei secoli per ricavarne il marmo.

Anche noi, davanti a questo maestoso silenzio, siamo costretti a meditare, osservando le meravigliose scene della vita animale che ingenuamente si ostina a donarci i colori della gioia e della libertà, ricordandoci la bellezza di ciò che potremmo perdere. I pesci che nuotano attraverso la barriera corallina, i cuccioli di elefante che giocano nel parco del Serengeti, entrambi minacciati costantemente dall’uomo, sono simbolo di un equilibrio che abbiamo reso precario e che siamo chiamati, tutti, a ristabilire.

L’assurdità esposta con lucidità è la chiave che i registi usano per non permettere a nessuno di restare indifferenti al messaggio di Antropocene. Alcune testimonianze umane sono troppo oltre il limite per non colpire sia la sfera emotiva che quella razionale dello spettatore: un turbamento volto ad un risveglio verso l’azione. Questo stile narrativo compare già dalla prima sezione, estrazione. Nella cittadina russa di Norilsk, fra le dieci più inquinate la mondo, si assiste ad una parata creata in onore della giornata del metallo che sembra uscita da una distopia di Philip K. Dick: esseri umani talmente indottrinati o disperati da essere felici di celebrare la fabbrica che avvelena le loro vite, tanto da dedicare ad essa un giorno di festa nazionale!

La follia della superbia umana tocca livelli da mozzare il fiato quando assistiamo alla perseveranza con cui un operaio cinese getta blocchi di cemento armato per “fermare l’innalzamento delle acque” dovuto allo scioglimento dei ghiacci, acque che danneggerebbero l’estrazione del petrolio nella zona di Dongying. Si chiama Gudong Seawall ed è una barriera tanto inutile quanto la famosa muraglia cinese, costruita un tempo in terraferma per tenere lontani gli invasori (che comunque la oltrepassarono nei brevi spiragli a loro concessi).  Questa barriera è il simbolo della sfida dei cinesi ad un nuovo, inutile nemico, il mare. Un finto nemico, combattuto per ritardare un processo inevitabile e continuare a sfruttare la Terra come se nulla fosse. Perché affrontare il vero nemico, il cambiamento climatico, significherebbe sfidare sé stessi, le proprie abitudini, le proprie già fragili certezze.

Possiamo barricarci nei nostri atteggiamenti inumani, fino a quando anche noi, spogliati da noi stessi, non saremo una specie in via di estinzione alla ricerca di un’area sempre più limitata e protetta dove vivere, come gli animali che vengono presentati nell’ultima sezione del documentario: okapi, tigri siberiane, tartarughe egiziane… Effettivamente il documentario ci anticipa già questo momento, testimoniando le vicende della cittadina tedesca di Immerath, dove gli abitanti vengono allontanati per fare spazio alla miniera di lignite e nemmeno la Chiesa di San Lamberto viene risparmiata dalla distruzione di interi villaggi. L’edificio sacro che crolla a colpi di ruspe è una delle sequenze più forti di tutto Antropocene.

Auguro a tutti la mia stessa fortuna: vedere questo film vicino agli occhi di bambini di 10-11 anni che ti rendono incapace di mentire e di restare freddo al desiderio di cambiare.

 

Alcuni riferimenti:

sito del progetto: https://theanthropocene.org/