Esercitare la/alla COMPASSIONE

di suor Cristina Merli, FMA

 

3^ PUNTATA – Esercitare la/alla COMPASSIONE

Nei momenti di crisi, se ci si lascia toccare da ciò che accade, si diventa più essenziali, si scopre ciò che è indispensabile e si impara a lasciar andare ciò che è accessorio. Rubo il titolo di una bella canzone di Simone Cristicchi, “Le poche cose che contano”, per riflettere su quali sono le parole che oggi veramente dobbiamo salvare in educazione. Ogni genitore, docente, educatore potrebbe fare lo stesso esercizio e magari qualcuno lo ha già fatto. Io ho scelto quattro espressioni, per quattro puntate.

  1. Custodire la FRAGILITÀ
  2. Educare alla CURA
  3. Esercitare la/alla COMPASSIONE
  4. Vivere la SPERANZA

 

Esercitare la/alla COMPASSIONE

Quanto bisogno di compassione in questi mesi e quante persone capaci di compassione! Cum – patior, sento con te, soffro con te, sono con te, nel bene e nel male.

Alcuni esempi.

– Il vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, rimasto tra la vita e la morte per giorni durante la prima ondata del Covid, ha sottolineato quante gentilezze, quanta vicinanza ha ricevuto da medici e infermieri, quanta compassione gli ha tenuto compagnia in quei momenti di solitudine.

– Nella comunità religiosa delle suore anziane di Varese, adiacente alla comunità dove vivo, durante la prima ondata sono morte 5 suore. Eravamo tutte in quarantena, nessuna poteva andare ai funerali. Gli operatori delle pompe funebri, prima di portare le salme al cimitero, facevano il giro più lungo ed entravano nel cortile, tiravano fuori la bara dall’auto e aspettavano che le sue consorelle, affacciate alle finestre, recitassero il rosario per chi, nella solitudine, le aveva lasciate. Quel gesto di compassione dava un po’ di sollievo alla sofferenza del distacco.

– Nelle RSA la compassione ha portato ad inventare “le stanze dell’abbraccio”, dove i parenti degli anziani possono toccare e abbracciare i loro cari senza rischio di contagio, attraverso pareti trasparenti di plastica, ritrovando quel contatto che scalda il cuore.

– Negli ospedali, quando un paziente viene dimesso dalla terapia intensiva, a volte medici e infermieri preparano la festa del saluto, fatta di applausi e di grida di gioia, per condividere la felicità della persona guarita.

Ognuno avrebbe episodi da raccontare.
C’è, dunque, bisogno di compassione.

 

Non è solo emozione, non è solo empatia, è un’empatia che spinge ad agire, è “sentire” il bisogno dell’altro e condividerlo, e provare a dare risposta. Come tante volte fece Don Bosco. C’è un episodio vicino a ciò che oggi stiamo vivendo.

Nel 1854 a Torino scoppia il colera. Possiamo immaginare, ora più che mai, che cosa significasse. Contagi, malati, morti, paura. Don Bosco non prova solo compassione, ma pensa concretamente a cosa poter fare insieme ai suoi ragazzi.

«Balenò alla mente una coraggiosa idea. Impietosito alla vista dell’estremo abbandono in cui si trovavano i colerosi, espose ai suoi ragazzi lo stato miserando in cui si trovavano, esaltò il grande atto dì carità di dedicarsi a loro, ricordò le parole di Gesù “tutto ciò che avrete fatto ad uno di questi piccoli, lo avete fatto a me”. In tutte le epidemie e pestilenze vi furono sempre uomoni generosi i quali sfidarono la morte a fianco degli appestati. Espresse il vivo desiderio che anche alcuni di loro divenissero compagni in quell’opera di misericordia»: 14 giovani, e poi altri 30 accolgono l’invito: «Ammirando l’eroico slancio, don Bosco pianse di consolazione e li slanciò all’opera pietosa. Quando si seppe che i giovani dell’Oratorio si erano consacrati a questa nobile impresa, le domande per averli si moltiplicarono talmente che loro non fu più possibile attenersi a nessun orario. Giorno e notte, come don Bosco, furono in moto».
«Qualche giorno avevano appena tempo di prendere un boccon di pane e talvolta furono costretti a cibarsene nelle case dei colerosi. Quando trovavano un infermo che mancasse di lenzuola, coperte o camicia, correvano dalla caritatevole mamma Margherita che somministrava prontamente gli oggetti secondo il bisogno. Un giovane corse a raccontare come un povero malato si dimenasse in un misero giaciglio senza lenzuola. Fruga e trova solo una tovaglia da tavola: “Corri, non abbiamo più nulla”. Si presenta un secondo chiedendo qualche cosa. Che fa quella donna incomparabile? Vola a prendere una tovaglia dell’altare, un amitto, un camice e, con licenza di don Bosco, dà in elemosina anche quegli oggetti. Non fu una profanazione ma un atto di squisita carità, poiché quei lini benedetti ricopersero le nude membra di Gesù nella persona di un coleroso». I giovani formano tre squadre: i grandi a servire nel lazzaretto e nelle case; i mediani a raccogliere i moribondi nelle strade e i malati abbandonati nelle case; i piccoli pronti alle chiamate d’urgenza. Ognuno ha una bottiglietta di aceto per lavarsi le mani. Autorità e popolo sono sbalorditi e affascinati.

Nessuno dei ragazzi di Don Bosco contrasse il colera.

 

Compassione: sentire il sentire dell’altro, fargli percepire che è preso a cuore, non a parole, ma con i fatti.
I ragazzi che tornano raccontano a Mamma Margherita le sofferenze dei malati, le sentono, le vivono e agiscono: vestiti, lenzuola, tovaglie della chiesa e via di nuovo a fare il bene, ad alleviare il dolore.

Una cara amica, coordinatrice di una scuola dell’infanzia, all’inizio di ogni anno rimane stupita quando i bimbi di 4 anni, che tornano a scuola con il magone nel lasciare la mamma, non appena vedono quelli di 3 anni disperati smettono di piangere e si avvicinano a quelli, li abbracciano e cercano di consolarli: “Poi la mamma arriva”.
Forse la compassione è qualcosa di innato che a volte, al posto di fare crescere, rischiamo di perdere a poco a poco.
Torniamo a lasciarci educare dai più piccoli.

Mettiamo il nostro cuore vicino a quello dell’altro.
Cerchiamo di decifrare il suo battito quando non lo capiamo, quando lo vediamo soffrire, quando ci provoca, quando è felice.
Facciamolo, insieme a tutti gli uomini e le donne che senza ostentazione seminano gioia nelle zolle di dolore, piangono lacrime di vita dentro otri di morte, sfiorano con un bacio anime perse nell’abbandono, si vestono a festa per il successo dell’altro o sanno semplicemente “sostare” accanto a chi soffre.
Facciamolo. Per noi. E per i nostri figli.