70 anni di Diritti Umani

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani me la immagino come una signora distinta, elegante e bellissima nel suo 70° compleanno. Mi sembra di vederla sorridente ma con il viso segnato dalle rughe, un vestito pulito ma consunto, messo alla prova dal tempo e dagli avvenimenti.

Un nome altisonante il suo, ma cosa vuol dire poi dichiarare che dei diritti sono universali? Prendo in prestito le parole di Liz, che con una semplicità e concretezza tutta messicana nel pensare ai diritti mi spiazza con un: “hay que reconocer que somos diferentes, intentar comprendernos y ver lo en que coincidimos”. In italiano suona come “bisogna riconoscere che siamo diversi, provare a capirci e vedere quello che abbiamo in comune”; la forza di quel “coincidir” però non mi lascia indifferente. Perché non ripartire proprio da lì?

Credo che nel 1948, quando è stata presentata e firmata, la Dichiarazione volesse farsi forza esattamente della convinzione che nonostante gli errori e gli orrori della guerra, c’è una bellezza che non si può ignorare. È quella bellezza antica che riconosce in ogni essere umano dignità, non per il fatto di essere uomo o donna, cittadino o schiavo, quanto piuttosto per il semplice fatto di esistere.

È nata nonostante il serio rischio di un aborto, perché con un mondo già spaccato dalla Guerra Fredda e dallo sgretolarsi di un sistema coloniale improvvisamente si affacciavano tante domande: quali sono i valori condivisi? Su cosa ci riconosciamo? Ma soprattutto: chi è l’uomo?
L’impegno incessante di tanti uomini e tante donne nel tessere, trattare e anche ostinarsi ha fatto sì che quei 30 articoli venissero scritti e fossero quella Carta fondamentale e punto di riferimento per i diritti umani nei decenni seguenti, fino a oggi.

Si inizia nel preambolo con lo spiegare perché è stato necessario arrivare fino al mettere nero su bianco certe idee, altrimenti facilmente calpestabili. Negli articoli poi si susseguono i concetti di libertà e dignità, a cui si accompagnano poi i diritti individuali come quello del diritto alla vita, successivamente si delineano i diritti dell’individuo nei confronti della comunità, preservandolo ad esempio dall’essere deprivato della propria nazionalità. La Dichiarazione continua con le libertà costituzionali, permettendo ad esempio la libertà di pensiero, coscienza e religione.

L’uomo però non sarebbe completo se ci si riferisse a lui solamente tenendolo sotto una campana di vetro al riparo da ingerenze esterne; quindi pensando alla ricchezza della persona e alla possibilità di crescita lo si immagina anche in relazione alla comunità: nell’educazione come nel lavoro, nell’assistenza in caso di vulnerabilità così come nell’attiva partecipazione alla vita collettiva. Ancora, diritti e responsabilità sono necessariamente legati: la Dichiarazione si chiude riconoscendo che l’individuo non vive solo, all’interno della società deve sapersi muovere e convivere. Questa convivenza implica anche delle responsabilità nei confronti degli altri.

Si rimane abbagliati, nel leggerla. Poi sorge spontaneo il dubbio che si tratti di un affascinante documento nato dalla buona volontà ma rimasto soffocato poi dalla realtà. Quindi: vale la pena festeggiarlo questo compleanno della bella Dichiarazione oppure è solo ipocrisia?

Ho 23 anni, appartengo alla cosiddetta “generazione della crisi” e rubando un’immagine di don Milani mi rispecchio moltissimo in quella sete di vivere rimanendo con i piedi nel fango e gli occhi verso il cielo. L’assaggio di vita al Consiglio dei Diritti Umani con la 39° sessione ha ampliato l’orizzonte ma di certo non mi ha lasciata imbambolata: non tutti quelli che entrano nella Sala XX lo fanno con le stesse intenzioni, ci si nasconde dietro falsi pretesti e spesso si fatica ad accettare di mettere davvero l’uomo al centro.

Questi sono i piedi ancorati al terreno e sensibili a ogni spaccatura, temperatura e consistenza. Poi però ci sono gli occhi che guardano le stelle, allora si scorge anche il lavoro e la tenacia di chi come Eleanor Roosevelt nel 1948 anche adesso non si risparmia e continua in un’attività come quella di Sisifo fatta di dialogo, denuncia, unione d’intenti e tentativi di cambiamento.

Per festeggiare davvero questo 70° compleanno forse quel che serve allora è prendersi in mano in modo serio, lasciare ai demolitori di professione ogni semplificazione e affrontare la realtà.

Dal piccolo al grande, sembra prevalere la libertà dell’individuo (che poi diventa libertà del singolo stato, rifiuto di forme di condivisione) su quella della comunità. Ecco che trova terreno fertile quella che papa Francesco chiama la “cultura dello scarto”, che marginalizza, si rifiuta di comprendere e di abbracciare la complessità. Meccanismi di questo tipo non solo sono pericolosi nell’immediato, ma diventano fomentatori di disuguaglianza e allontanano sempre di più dal quell’idea tanto bella quanto fragile di “universalità” dei diritti.

Universale diventa sempre più locale poi anche quando alcuni principi vengono ignorati in nome di presunte incongruenze culturali. Finisce così che il Niger accetti di buon grado le spose bambine già all’età di otto anni, perché così è la tradizione. Trump al Palazzo di Vetro e l’ambasciatore cinese a Ginevra sembrano quasi dargli ragione quando insistono nel sostenere l’inviolabilità della sovranità.

Oltre a un istintivo rifiuto di quest’idea, provo a razionalizzare e motivare il perché questo atteggiamento di isolamento sia terribilmente pericoloso. Non è solo pietà per quelle bambine del Niger, ma convinzione che la Dichiarazione di Vienna e il Programma d’Azione riconoscendo che i diritti umani sono universali, inalienabili, indivisibili e interdipendenti non si limitava a giocare con le parole. Ovvero: serve mettere sullo stesso piano le categorie di diritti ma serve anche iniziare a capire che i miei diritti hanno valore solo se anche i diritti dell’altro sono rispettati. Trincerarsi nel proprio piccolo angolo di mondo significa rinunciare a una battaglia necessaria ma anche limitare la propria libertà.

Facile? Al contrario: approccio integrale significa proprio provare a tenere insieme la complessità del molteplice con la necessità dell’uno.

Non possiamo poi fingere di sorvolare sugli ultimi due articoli della Dichiarazione: il diritto è questione di giustizia ma non può svilupparsi in tutta la sua completezza se non è accompagnato dalla responsabilità.

Quindi: sì lo voglio festeggiare il compleanno della bella signora del vestito un po’ logoro. Lo festeggio proprio qui a Ginevra, al palazzo delle Nazioni, un giardino immenso, il Monte Bianco incappucciato e i mille volti incontrati durante queste tre settimane di sessione.

Vivere nel mondo e allo stesso tempo non farsi contaminare: davvero io ci credo.

Fonte: cgfmanet.org