Ultima domenica dopo l’Epifania
23 febbraio 2020 – Anno A
Dal Vangelo secondo Lc 15,11-32
Commento di suor Susanna Anzini
“Attendere infinito del verbo amare”. Questa frase di don Tonino Bello mi risuona nella mente mentre rileggo il brano evangelico del padre misericordioso. È difficile descrivere l’attesa, infatti, ci viene detto cosa fa il figlio mentre è lontano, ma non ci viene raccontato nulla di ciò che vive il padre. Attendere implica la capacità di tenere accesa, nel cuore, la fiamma della speranza, anche quando tutto intorno resta immobile.
Il figlio non fa sapere nulla di sé al padre, non manda notizie, non scrive: per lui è come se il padre fosse morto; lasciando la casa si è lasciato dietro le spalle un’intera esistenza. O meglio crede di averlo fatto, perché il legame che lo lega al padre è indissolubile.
Il padre è perseverante, non smette di scrutare l’orizzonte, continua ad attendere il figlio, anche se il figlio lo ha abbandonato, anche se non condivide le sue scelte, anche se sicuramente il comportamento del figlio lo ha ferito. Attende perché ama. Nell’attesa l’amore si rafforza.
Noi viviamo nella società della fretta, dell’immediatezza: basta pensare a quanto ci innervosiamo quando un piccolo imprevisto ci fa perdere del tempo. Dio, come il padre della parabola, non è così: sa attendere, sa aspettare il momento in cui noi, come il figliol prodigo, ci rendiamo conto della verità, cioè che abbiamo bisogno di Lui.
È questo il “ritornare in sé” del figlio, è il rendersi conto che ha bisogno del padre e che può ritornare da lui. Il tempo è maturo, attesa è finita.
È il padre il primo a vedere il figlio, quando era ancora lontano proprio perché stava aspettando, contro ogni logica, il ritorno di quel figlio. Ha compassione, si commuove, si lascia trasportare dall’affetto verso quel giovane, che ritorna a casa deluso dai suoi sogni di falsa felicità. Gli corre incontro: vuole affrettare il momento del ricongiungimento, come se, dopo aver tanto atteso, ora non possa più aspettare. Gli si getta al collo, lo bacia, l’affetto che è cresciuto nell’attesa ora può finalmente esplodere nella gioia dell’incontro.
Tutto questo lascia sbalordito il figlio a cui, quasi, non viene neppure data la possibilità di porgere le proprie scuse: temeva, a causa dei suoi errori, di non ritrovare più un padre, ma un padrone al quale implorare un posto di lavoro. Invece gli viene immediatamente restituita la sua dignità di figlio, si fa una grande festa per lui: il perdono del padre è immediato perché maturato nella lunga attesa del figlio.
Possiamo ricavare due messaggi fondamentali da questa parabola.
Il primo è sicuramente la consapevolezza che Dio ci ama e ci attende, indipendentemente da quanto grande possa essere lo sbaglio commesso, Dio è pronto a riaccoglierci a braccia aperte.
Il secondo messaggio è l’importanza di recuperare il valore dell’attesa. Imparare ad aspettare quelli che sono i tempi dell’altro, la sua necessità di maturare delle decisioni.
Si attende quando qualcuno o qualcosa è veramente importante, coloro che attendono in genere sono gli innamorati. La nostra capacità di attendere potrebbe essere un indice della nostra capacità di amare.
Dio, come il padre della parabola, è in attesa di ciascuno di noi, ma noi sappiamo stare in attesa trepidante per cogliere i segni della presenza di Dio dentro le nostre vite?