Andrea: vestito di freddo e di paura

Sr Ada: giovani voci dal carcere

Sono una suora salesiana. Entro nel  carcere di San Vittore 3 volte alla settimana e ogni volta entro con gioia:  so di essere attesa, so che per non pochi sono una sorella con la quale condividere la pena, la paura, l’incertezza, la solitudine del cuore.

Sono una suora salesiana (FMA) un’assistente volontaria della VI Opera, un’Associazione per l’assistenza penitenziaria e post penitenziaria O.N.L.U.S. che fa capo ai Gesuiti di San Fedele di Milano e che svolge la sua attività nelle carceri di San Vittore, Bollate e Opera. Si propone di vivere il messaggio evangelico di Matteo 25,36. Io entro nel carcere di San Vittore 3 volte alla settimana e benché possa sembrare un po’ strano, ogni volta entro con gioia: so di essere attesa, so che per non pochi sono una sorella con la quale condividere la pena, la paura, l’incertezza, la solitudine del cuore. In carcere l’uomo si ritrova solo con se stesso, solo con la sua umanità ferita o frantumata, solo e privo di ciò che ora stima come un assoluto e che però non possiede più: la libertà.

In questo momento mi viene in mente Mario (i nomi sono tutti di fantasia). Ogni martedì aspetta il suo turno per parlarmi, per dirmi e ripetermi la sua ansia, la sua storia, i suoi sogni… Quando gli chiedo in che cosa posso essergli utile o di che cosa ha bisogno, ebbene, da mesi continua a ripetermi: la libertà, desidero solo la libertà! Aveva una ragazza, l’ha lasciato; aveva un lavoro, l’ha perduto. Dice di pagare la colpa di altri perché si sa innocente, ma comprende che per amore della sua famiglia che verrebbe punita al suo posto, non ha altra scelta che “pagare”. Non si lamenta di nulla. E’ consapevole che il luogo in cui si trova non è e non può essere che un luogo di sofferenza, ma la mancanza di libertà è un tarlo che dentro lo consuma! In carcere sembra che il tempo si fermi, sembra quasi un tempo al rallentatore. Occorre tanta pazienza, occorre saper aspettare.

Poi, ad uno ad uno, i “nuovi giunti” arrivano.

Andrea è un giovane di 22 anni. E’ la prima volta che viene in carcere. E’ vestito di freddo, di paura, di angoscia. Era senza lavoro con moglie incinta e un bambino di 2 anni. Preso dallo sconforto si è ubriacato ed è… finito a San Vittore. Mi supplica di avvisare sua moglie, povera e sola perché gli porti qualche vestito.

Penso a Luigi di soli 20 anni accusato di rapina. La strada era la sua casa, il rubare il suo mestiere, la solitudine la sua compagna. Nessuna famiglia, nessun amico se non qualche “complice del suo lavoro”! Ora dice di aver, per la prima volta, constatato che c’è qualcuno che ama gratuitamente e sembra illuminarsi mentre lo dice! Ora, poco per volta, ha allontanato la paura e parla, parla del suo passato, dei suoi sentimenti e promette anzi giura di voler diventare un uomo nuovo, comprende che deve disfarsi del rancore, della violenza che purtroppo ha messo radici profonde nel suo giovane cuore, giovane sì, ma provato durante tutta una fanciullezza e una giovinezza vissuta nello sbaraglio più totale. Sa di dover “pagare molto” e mi scruta quasi per cogliere la mia comprensione, il mio sguardo fraterno, quella bontà che mai ha sperimentato prima.

A San Vittore incontro giovani e non giovani. Uomini che ora si definiscono anche gravemente colpevoli, che sentono il peso della loro colpa e che pertanto ritengono di dover giustamente pagare con il carcere, ma che ardentemente desiderano essere guardati e trattati da persone, guardati negli occhi senza difese e senza minacce.

Non tutti, ma molti vogliono rifarsi una vita onesta e pulita. In carcere tutto è amplificato, tutto è pubblico. Tra loro i detenuti non parlano mai di sé. Parlano di pene, di avvocati, di reati, di giudici… Non si fidano e solo qualche volta parlano della loro famiglia, in genere esagerando tutto ciò che c’è di positivo negli affetti per far comprendere che sono amati. In carcere infatti la famiglia diventa importante, diventa il “tutto” a cui aggrapparsi. Si ritrova l’amore per i genitori, per i propri figli, si aspetta un loro sorriso, la certezza di non essere dimenticati almeno da loro. In realtà, una volta che entrano in carcere, non poche famiglie alzano dei veri muri nei loro confronti fino a rinnegarli totalmente, a definirli “morti”, come nel caso di Mohamed. Ex-detenuto, ex-drogato: quale accoglienza troverà domani nella società se persino la sua famiglia lo rinnega?

A San Vittore c’è anche un reparto psichiatrico: il Centro Clinico. Qui incontro purtroppo chi, nella sua follia, nel suo “spaesamento totale” si è macchiato di crimini gravissimi. Eppure, ogni volta, prendo atto che incontro una persona, un uomo malato, ma sempre uomo che sa lentamente compiere miglioramenti, un recupero forse della sua umanità, un uomo che impara ancora a sorridere, che tenta di dialogare e forse a distinguere il bene dal male.

Il carcere di San Vittore è un “carcere circondariale”. Una volta che il detenuto riceve la condanna definitiva, viene mandato in un altro carcere. In tal caso il detenuto mi scrive e io credo che questo non sia solo un modo per riempire il tempo. E’ vero che non posso far molto per lui, ma la sua solitudine diventa meno graffiante perché c’è qualcuno che crede in lui, che ha fiducia di lui, che lo aiuta e lo sprona a guardare al domani con speranza e la speranza è vita! Nel mio caso, mi pare di poter assicurare che sono persone che entrano nella mia vita, nei miei pensieri, nei miei affetti, nella mia preghiera. Sono spesso coloro che la società relega nelle periferie, i più poveri tra i poveri, ma io sono loro grata perché accanto a loro o per loro, sperimento che donando amore, si riceve amore e gioia profonda.

Nel carcere di San Vittore pullula è vero un mondo povero, ma è in questa povertà, quando proprio tutto sembra venir meno, che l’uomo riscopre la ricchezza della sua “vera umanità”, la sua dignità e la sua stessa “vera libertà”!

Sr Ada Traldi FMA