Il “bello” delle nostre cicatrici

Di: Federico Pichetto

 

L’eterna tentazione

 

Che siano di eredi al trono mancati o di segretari di pontefici, poco importa: i libri-rivelazione promettono al popolo affamato di verità di essere portato dal lato giusto della storia, quello dove le cose non sono come vengono raccontate, ma come in realtà accadono. È l’eterna tentazione di Eva che, mangiando il frutto del giardino, pensa di aver accesso ad una forma di conoscenza non edulcorata dal potere, ma finalmente autentica e sincera.

 

Certo, nel contesto attuale questi libri si possono scrivere, sono testimonianza di una libertà ostentata che sfida il potere costituito, rappresentano l’ultimo atto di una Rivoluzione francese permanente che mai si stanca di abbattere l’Ancien Régime.

 

Eppure, essere liberi è molto di più di tutto questo. Il crinale tra età classica e tardoantico fu pervaso da un intenso dibattito sulla libertà: da una parte spiccava Origene e la sua affermazione tenace circa il fatto che non esistesse un’azione umana capace di “fissare” la libertà, al punto che, una volta terminata questa nostra esistenza corporale, tutto sarebbe stato rimesso in gioco. Dall’altra c’era Agostino che, al contrario, si era fermamente convinto che le azioni dell’uomo fossero in grado di definire la sua libertà, al punto che di esse – al termine della vita – avrebbe dovuto rendere conto.

 

 

Si può essere liberi?

 

Nessun uomo è davvero realmente libero come a volte è romanticamente raccontato dai paladini della civiltà: ogni nostra azione segna la nostra situazione successiva, ogni nostro limite definisce quello che siamo, ogni nostra decisione si ripercuote su noi stessi e sugli altri.

Non è un caso che il cristianesimo proponga all’uomo la confessione: non tanto come ambito in cui scaricare i propri sensi di colpa, quanto come luogo in cui essere perdonati, in cui – pur tra mille ferite – ripartire. Origene era paladino di una libertà “greca” in cui tutto, in fondo, sempre riaccadeva. Agostino, invece, sapeva che la vita era una strada e che l’uomo poteva davvero sentirsi libero soltanto in un bene che non ignorasse le azioni compiute, ma le abbracciasse per sempre. Nel cristianesimo i nostri errori e le nostre scelte non sono dimenticati, ma diventano le nostre cicatrici, le tracce della strada che abbiamo percorso e che – forse – un giorno saranno gli unici tratti distintivi del corpo glorioso per riconoscerci e volerci bene in paradiso.

 

 

Libertà e appartenenza

 

È libero chi appartiene, non chi distrugge. È libero chi sta nel recinto delle proprie scelte, non chi si illude che sovvertire la vita coincida con una nuova promessa di felicità. Al nostro tempo sono state tagliate tutte le radici, tutti i legami, tutte le responsabilità. In nome di una lotta ad un formalismo soffocante si è pensato che la libertà fosse la distruzione di ogni forma, di ogni ponte, di ogni debito proveniente dal passato. Pensavano che abbattendo tutto avrebbero reso gli uomini più liberi, purtroppo li hanno resi più soli.

 

Per questo fa male vedere nella comunità cristiana crescere il sospetto, il complottismo, la reciproca diffidenza. Per questo fa impressione constatare come i social media siano a servizio non di un’appartenenza, ma di un’eterna presunzione di sapere, di conoscere, di giudicare. Tutto questo ci rende più soli. E chi è solo è più debole, più alla mercé del potere, più manipolabile. Libertà è stare nell’amore e, per restare in quell’amore, combattere fino – come evocava Dante – a rifiutare la vita pur di non perdere quell’appartenenza.

 

 

Altrimenti si può far tutto: chiudere matrimoni, cambiare morali, voltare spalle agli amici, rimettere in discussioni scelte, fedeltà e genitori. Ma si rimane soli. E, in quella solitudine, può succedere di tutto. Anche, pur con gli intenti migliori, di scrivere un libro. Un libro che vorrebbe essere di verità, ma che – in fondo – è solo la testimonianza concreta di una triste solitudine.

 

 

 

FONTE: Il Sussidiario